mercoledì 22 maggio 2013

La grande bellezza

La grande bellezza la inseguiamo tutti e prima o poi speriamo di trovarla, magari anche di crearla. Pure Liberace a suo modo la cercava: nel kitsch, nella musica da pianoforte per dummies, in Mozart suonato come Matt the Knife, come dice John Irving in Preghiera per un amico. La sua era spazzatura, ma negli anni 50, 60 e pure nei 70, nonostante il camp fosse già in voga, viveva ancora della propria spontanea innocenza. La luce verde era prosaicamente un baluginio dei candelabri, ma era una fonte di luce ancora diretta, mediata da nulla se non dal proprio splendore, tanto che sbatteva contro l'obiettivo e creava quei caratteristici bagliori a stella in primo piano, che per noi sono l'immagine unica del decennio della disco e delle perline. Il baluginio di Sorrentino, invece, non tanto diverso da quello di Liberace, solo postmoderno e dunque non cangiante ma piatto e mediato, vive della pietà che prova per se stesso, come il giornalista mondano Gep Gambardella, come lo stesso Sorrentino, che pure questa volta come regista dimostra di avere un immaginario da volume universitaria, un dolly qui, una carrellata qua, ma come artista svela una sincerità autentica, del tutto inattesa.
Il suo film è insopportabile per molti tratti, non lo nego, ma con il passare dei minuti capisci che l'intenzione è quella di massacrarsi da sé, non c'è nessuna arroganza. Coi suoi dolly e le sue furbate, con la voce di Moretti e Bellocchio, ma senza la loro rabbia esistenziale e civile, Sorrentino si mette sullo stesso piano di ciò che rappresenta e si svela per quello che è: un artista autoindulgente (e chi non lo è, autoindulgente, con la propria vita? L'alternativa è il suicidio, o la fuga, non è che ci sono troppe scappatoie dall'egoismo) che sa di sopravvivere come tutti gli altri: compromesso eppure unico, farabutto eppure diverso. La grande bellezza, contro ogni mia aspettativa e contro ogni mio desiderio capriccioso di veder confermate idiosincrasie e odi cinefili, funziona perché è finalmente onesto con se stesso, la bellezza la cerca come tutti e come tutti crede di trovarla e condividerla, nuda, povera, nonostante i vezzi che conosciamo, e per questo, almeno stavolta, ingiudicabile. Il fatto che non sia la mia idea di bellezza, che io detesti come molti i carrelli accompagnati da un violoncello dolente, non c'entra nulla; se così fosse, se dovessi giudicare un film da quello che spero o voglio trovare, o dovrei fare un altro mestiere, o dovrei concepire un film come un gioco in scatola, da decifrare e sconfiggere. E invece il cinema lo fa Sorrentino, gli si può imputare di tutto tranne di volersi nascondere, e io posso anche pensare che il suo modo di girare o scrivere non si adatti al mio modo di vedere, ma se la bellezza è là fuori, e al tempo stesso è dentro ciascuno di noi, e se la bellezza non esiste oppure è così tanta da essere indistinguibile da tutto il resto, l'unica cosa che resta, prima della fuga o del suicidio, è la ricerca onesta di chiunque abbia la curiosità di aprire gli occhi. Dentro la scena, rischiando di abbagliarsi.

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