giovedì 12 aprile 2012

Operetta morale di una strage

L'altra sera ho visto con un po' di ritardo Romanzo di una strage. Siccome di parole se ne sono scritte fin troppe, anche se quasi mai di cinema, bensì di storia, giornalismo, verità dei fatti e invenzioni della letteratura - eh sì, signora mia, in Italia ci sono più critici che allenatori - mi vengono in mente due cose. La prima è che l'umana pietas, per quanto comprensibile e in buona fede, non dovrebbe essere presa come strumento di indagine storica, altrimenti si rischiano la parzialità delle ricostruzioni o peggio la loro inconsistenza. Poi, certo, uno dice che la verità è sepolta da decenni di inchieste e di indagini, di condanne e assoluzioni, e allora è inevitabile trasformare la storia in romanzo, ché tanto pure i documenti sono interpretabili e perciò vale tutto, anche la teoria della doppia bomba, quella anarchica e quella fascista, due come tutto ciò che possediamo, dalla macchina alla tv, dall'iPhone al'iPad... Ma se poi solo i morti fanno bella figura, elevandosi oltre la marmaglia istituzional-eversiva per la loro veggenza o per la loro purezza, ché è questo che nel film capita a Moro, Pinelli e Calabresi, allora più che un romanzo, la ricostruzione di una strage diventa un racconto d'agnizione, un'operetta morale dove c'è l'angelo caduto che indica la via offrendosi come vittima sacrificale (Moro), l'uomo del popolo che paga per la sua onestà (Pinelli) e l'eroe borghese che capisce ma sbaglia perché errare è umano e a tutti piacerebbe mollare il lavoro in questura per andare in fabbrichetta col suocero. Insomma, va bene il rispetto dei morti, ma allora perché quei quattordici nomi all'inizio, come se il film fosse nel solco dell'unica verità insindacabile, e cioè la verità della morte, mentre poi tutto il resto è rivisto e corretto sulla base del senno del poi, della tragica fine fatta da uomini che furono protagonisti di quella vicenda e non suoi narratori o precursori?


La seconda cosa, e poi chiudo, è ciò che ho pensato vedendo la primissima scena del film, dopo aver visto la didascalia "Padova, 1969". Un uomo di spalle, un portico, una luce marroncina anni '60 e, brum brum, ecco la solita Fiat d'epoca sbucare da destra e proseguire verso il fondo della via. Non siamo nemmeno a un minuto di film e già si capisce che cosa si vedrà... E' possibile, mi chiedo, che in Italia nessuno riesca a rendere l'atmosfera del passato senza far partire una macchina al grido di azione e dopo l'ordine in radiolina dell'aiuto regista? E' possibile che a nessuno venga in mente di essere un po' meno sciatti e trasandati e magari lasciare al film il tempo di costruirselo da sé, il passato, senza per forza prendere a braccetto lo spettatore e portarlo in giro a bordo di una cazzo di Topolino?

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